Un’apologia della scrittura

Scrivere non è tanto, né lo è mai stato, fare in modo che qualcosa che è dentro esca in un fuori o almeno non è solo questo: quando si scrive, in realtà, si mette già in comunicazione, quasi per inverso, un fuori a tratti inaccessibile o che è diventato tale con un dentro. Di questo fatto ne sono consapevoli in molti, ma, dopotutto, si pensa ancora alla vecchia maniera che scrivendo uno traduca in parole determinati pensieri. Se fosse così, scrivere sarebbe in possibile poiché la traduzione ‘per esteso’ di certa roba che abbiamo ingarbugliata dentro è affare davvero impossibile; in genere si fa chiarezza sì, ma solo a patto che questa chiarezza si sia già raggiunta dentro e a prezzo, naturalmente, di un pensiero lucido e senza incrostazioni.

Quando si scrive, così come dicono i genitori ai bambini quando si mangia, si contratta in qualche modo con la morte: questa rivelazione è apparsa per la prima volta in certi autori francesi del secolo scorso ma con ogni probabilità era presente in nuce fin dalle antichità più remote e lontane perché, dopotutto, erano tutti consapevoli che la faccenda di scrivere ci mette, senza compromessi di sorta:

a) in comunione con i morti, poiché entriamo a far parte, pur senza esserne sempre all’altezza, con tutta un entourage di morti-autori;

b) in un certo senso, la cosa ci sopravvive, si spera, una volta morti e

c) scrivere è un po’ la morte della parola, del pensiero, perché scrivendo io ho forse e particolarmente compiuto quell’opera di quel pensiero che ora può estinguersi.

Naturalmente quest’ultimo fatto non è privo di certe complicazioni, ad esempio: se io sopravvivessi alla mia scrittura questo naturalmente farebbe del merito anche a lei. E via discorrendo.

Ma per quale motivo un’apologia della scrittura in questo secolo o decennio buio e in cui si preferisce guardare anziché leggere? Non perché ci sia necessaria, per carità: in quanto uomini possiamo fare a meno di tutto e di tutti anche a costo di sacrificare una parte della nostra individualità e delle nostre riserve psichiche. Quindi perché scrivere se la comunicazione si è evoluta? Forse perché dopotutto serve a noi per chiarirci qualcosa di oscuro? Abbiamo visto che non è così e allora perché? Forse perché dopotutto si tratta di comunicare in qualche modo con qualcuno che non è presente in carne ed ossa? a questo punto, stando a questo, scriviamo tutti chi più chi meno nell’epoca della messaggistica istantanea; tuttavia, provare a tradurre qualcosa di più complesso, dalla realtà in noi e poi di nuovo nella realtà richiede qualche esercizio in più; e allora si consiglia, ovunque, di leggere poiché chi legge molto, è risaputo e non ci sarebbe manco bisogno di argomentarci su tanto è lapalissiana come cosa, sa scrivere bene.

Anche questo non è sempre vero, quindi a chi credere? Ci sarebbe da dire molto di più ma preferiamo lasciarlo nel prossimo articolo lasciandoci con un aneddoto ora difficilmente trovabile in rete: pare infatti che George R. Martin, l’autore de Il Trono di Spade, in una delle prime interviste quando uscì il romanzo e prima ancora che la serie fosse iniziata – parliamo di almeno dieci anni fa, abbia dichiarato che lui, onde non lasciarsi troppo condizionare, non abbia mai letto fantasy ma abbia preferito scriverlo; quindi una cosa molto distante dal dover per forza di cose leggere onde scrivere bene.

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